Intervista alla Dott.ssa Elisa Gabbi
Eccoci all’appuntamento che tanto attendevo: l’intervista con la già citata Dott.ssa Gabbi, esperta di supporto ai caregivers. Già, torniamo a loro, approfondiamo alcuni aspetti di queste persone attraverso tre domande semplici, ma alle quali la Dott.ssa ha risposto in modo molto preciso!
1) Cosa rischia (in termini fisici e psicologici) il caregiver nella sua realtà quotidiana?
Il caregiver nella sua realtà quotidiana si trova a fare fronte a un forte stress, ovvero gli viene richiesto di affrontare una serie di situazioni impegnative che potrebbero eccedere il livello di energie e risorse che la persona ha a disposizione in quel momento.
Nello specifico, il caregiver si trova a dover risolvere una serie di contingenze pratiche che siano di supporto al proprio caro (come per esempio organizzare l’assistenza, recarsi dalle varie figure mediche, procurare gli ausili…) e a fronteggiare l’impatto emotivo che la malattia del proprio familiare comporta (vederlo manifestare sintomi difficili da gestire, vederlo cambiare, peggiorare, spegnersi).
E’ facile comprendere come questo insieme di elementi impattino in maniera diretta sulla serenità del caregiver e comportino una serie di cambiamenti nella sua vita quotidiana per poter fronteggiare la situazione: per esempio chiedere una riduzione dell’orario di lavoro, non avere più tempo libero, dover rinunciare a momenti di svago.
Spesso tutto ciò porta a sentirsi isolati e imprigionati in questa condizione, a percepire un grosso carico di responsabilità, ad affrontare conflitti familiari riguardanti l’assistenza del malato, a sentirsi inadeguati nell’aiutarlo. Questi aspetti (e molti altri che si potrebbero rinvenire nelle singole storie di vita) conducono il caregiver verso una condizione di appesantimento sia fisico che psicologico, che in ciascun essere umano trova le sue vie di espressione.
Ricordiamo come il sistema nervoso sia fortemente correlato con il sistema immunitario e il sistema endocrino, pertanto ogni segnale di fatica psicologica può riverberarsi su tutta la salute in maniera più ampia. Alcuni fra i sintomi più frequenti che manifestano i caregivers in difficoltà sono: sensazione di ansia, crisi di pianto, irritabilità, insonnia, pensieri tristi, affaticamento generale, abbassamento delle difese immunitarie, squilibri ormonali, cambiamenti nell’appetito.
E’ importante individuare precocemente questi sintomi e leggerli come preziosi segnali del fatto che non stiamo riuscendo a fare fronte a tutto il carico che ci viene richiesto. Pertanto, potrebbe essere utile prendere in considerazione altre soluzioni che permettano di assistere il nostro caro ma che tutelino di più anche la nostra salute. Ricordiamoci che non possiamo aiutare efficacemente nessuno se non siamo i primi noi a godere di un minimo stato di equilibrio fisico e psicologico.
2) Quali caratteristiche caratteriali/personali “proteggono” maggiormente il caregiver?
Si potrebbe di certo stilare un elenco di caratteristiche standard di personalità utili a fronteggiare il ruolo di caregiver. Ma personalmente, a fronte della mia esperienza concreta di lavoro con le famiglie di persone con demenza, ritengo che sia più sensato fare un ragionamento di un altro tipo. Credo che ciascuno di noi sia portatore di caratteristiche che permettano di svolgere al meglio il ruolo di caregiver e che le possa mettere in campo, qualunque esse siano, a patto che faccia a mente una scelta di coraggio: accettare che esiste un problema, che sarà faticoso affrontarlo e che sarà necessario mettersi in gioco e non fare finta di nulla. Mi spiego meglio: ho riscontrato che le situazioni in cui i caregivers si ritrovano a soffrire maggiormente avvengono quando essi, per svariati motivi, faticano ad auto-riconoscersi un ruolo degno di nota, minimizzano i sintomi di affaticamento che provano, faticano ad ammettere che potrebbero avere bisogno di aiuto, fuggono di fronte alla possibilità di affrontare dei temi personali che giacciono a monte dell’assistenza contingente del proprio caro. E’ mia opinione che il modo migliore con cui un caregiver possa proteggere sè stesso parta proprio con il riconoscere che la malattia del proprio caro sta andando a smuovere molti equilibri personali: da lì bisogna partire, ciascuno mettendo in campo le proprie caratteristiche peculiari, per cercare il modo migliore per assolvere questo compito.
3) Nel lavoro con il caregiver, quali strumenti si utilizzano?
Nonostante ogni storia sia una storia a sè, dalla mia esperienza di lavoro con le famiglie di anziani affetti da demenza, noto che alcune modalità di porsi rispetto alla terapia di supporto sono ricorrenti. In primo luogo riscontro una necessità fortissima dei familiari di “buttare fuori”, di raccontare quello che vivono (a volte anche i singoli episodi nei minimi dettagli) come se non potessero concedersi di farlo altrove, come se quello che portano dentro risultasse non raccontabile o non comprensibile alla maggior parte dei loro contatti sociali. Infatti i familiari riportano spesso il vissuto di non sentirsi compresi dal mondo esterno (da altri familiari, dagli amici, dal contesto lavorativo e talvolta anche dalle figure mediche). Inoltre, spesso dalle storie dei familiari emerge in maniera molto forte la loro sensazione di impossibilità a immaginare soluzioni alternative a quelle che hanno trovato per fare fronte alla situazione.
Nonostante appaia grande il loro desiderio di riuscire a trovare altre strade per occuparsi del proprio caro senza appesantirsi troppo, probabilmente risulta molto difficile mettersi in gioco e liberarsi di alcuni meccanismi (soprattutto legati al senso del dovere e al senso di colpa).
Credo che alla base di una terapia di supporto con i caregivers sia molto importante offrire innanzitutto ascolto e comprensione, con l’obiettivo di restituire legittimità e dignità al loro ruolo. Tuttavia credo sia importante che questa comprensione non si limiti ad assumere tinte compassionevoli, che rischierebbero di rimarcare la sensazione di impotenza e di impossibilità a compiere scelte diverse. Al contrario, credo che l’obiettivo del lavoro di supporto con i caregivers sia proprio quello di fare emergere le risorse di ciascuno e restituire la sensazione di essere maggiormente padroni della situazione, anzichè solo sovrastati.
Grazie ancora alla Dott.ssa Gabbi