Caregivers: chi si occupa del nonno?

 In CAREGIVERS

Come anticipato attraverso i social, vorrei parlarvi di Caregivers. Per raccontare al meglio la loro nascita, realtà e prospettiva nella società, ho chiesto ad una esperta del settore.

Come avrete visto nella pagina Facebook, recentemente con la Dott.ssa Tortorelli, abbiamo ragionato sulle specificità di ciascun profilo professionale e su chi contattare a seconda delle varie esigenze. Ecco che allora, per parlare di caregivers non potevo non interpellare la Dott.ssa Gabbi che da tempo si occupa di questo tema.

La realtà odierna ci mette di fronte ad un dato ambivalente: ogni mese, nel mondo, vi sono 795.000 anziani in più. Questo grazie ai progressi della medicina e allo sviluppo di nuovi farmaci sia curativi che preventivi, ma è innegabile che ciò significa anche che la terza e quarta età devono essere gestite tanto, se non di più, delle altre fasce di età.

Spesso gli anziani, con il sopraggiungere di alcune patologie richiedono l’assistenza dei familiari che li circondano, figli, nipoti, nuore, generi. Sono coloro che si occupano dell’anziano durante le visite, gli spostamenti, le cure, l’assistenza domiciliare. Ecco che sorge una nuova figura, di vitale importanza, il caregiver. Il termine anglosassone “caregiver“ è entrato ormai stabilmente nell’uso comune: indica “colui che si prende cura” e si riferisce naturalmente a tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato e/o disabile.

I caregiver sono pressati da due tipi di fatica: la fatica fisica di spostare, assistere, sollevare il malato oltre all’organizzazione di luoghi, tempi, spazi, materiali (strumenti medici o parafarmaceutici, prenotazione di visite, modificazione degli spazi casalinghi a favore di una maggiore mobilità per l’anziano); e la fatica psicologica: resistere agli sbalzi d’umore, accompagnare nel dolore fisico che può provare il malato, accettare che un proprio parente, spesso un genitore, sta cambiando, sta invecchiando…

L’identikit del caregiver: i “caregiver” dei pazienti con demenza sono la grande maggioranza. Sono in genere donne (74%), di cui il 31% di età inferiore a 45 anni, il 38% di età compresa tra 46 e 60, il 18% tra 61 e 70 e ben il 13% oltre i 70. Il 45,7% ha problemi di lavoro, di questi il 16,1% lo ha dovuto lasciare, il 32,1% ha chiesto il part-time, un altro 33,9% ha dovuto cambiare attività, il 3,6% è stato licenziato – il 53.6% lamenta sonno insufficiente e l’87.3% stanchezza.

Già nelle “caratteristiche” che denotano questa figura troviamo intrinseche delle difficoltà nei confronti del lavoro, dello stato fisico personale e tra poco vedremo anche quanto lo stress incide su questo ruolo.

L’Istituto di gerontologia e geriatria dell’Univerisità di Perugia riporta dei dati significativi: “Oltre ai costi misurabili, il caregiver subisce la fatica, l’isolamento sociale, la riduzione della qualità della vita e la compromissione delle relazioni familiari.

Si stima che più del 50% dei caregivers primari è a rischio di depressione. Presentano ansia, insonnia, difficoltà a concentrarsi sul lavoro. I caregivers di pazienti con demenza sono ad un più alto rischio di ospedalizzazione. I caregivers usano il 70% in più di farmaci prescritti rispetto ai controlli ed usano una maggior quota di psicofarmaci rispetto alla popolazione generale.”

Inoltre, nei caregivers si rileva quanto segue:

  •  Elevata incidenza e prevalenza di ansia, depressione, insonnia, sensazione di cattiva salute
  • Durata maggiore di malattia
  • Elevati valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica
  • Compromissione della funzione immunitaria cellulo-mediata
  • Aumento dei livelli ematici di trigliceridi e del colesterolo LDL con riduzione di quelli di colesterolo HDL

E dal punto di vista delle emozioni e dei vissuti? Una ricerca del Censis ha fatto emergere i sentimenti provati da coloro che assistono un malato e “tradotto” in percentuali si traccia il seguente quadro:

  •  21.9% dichiara di ammalarsi più spesso
  • 20% indica di aver preso farmaci a causa delle conseguenze provocate dall’assistenza (antidepressivi ed ansiolitici in particolare)
  • 77% vorrebbe poter fuggire dalla situazione
  • 78.3% prova rabbia per la sfortuna di doversi confrontare con questa malattia
  • 62.3% nutre il timore che la malattia possa avere una origine ereditaria

Tutto ciò dipende molto da un sottile meccanismo che proprio la Dott.ssa Gabbi mi ha sottolineato: dato che sono familiari, il figlio o la nuora o chi per loro, non si sentono investiti di un ruolo perché tutto rimane “informale” e quindi non sono riconosciuti nella loro funzione. Per questo faticano loro stessi a riconoscere che la fatica che fanno è reale e per tanto va sostenuta. Sono quindi portati quasi “automaticamente” a svolgere un ruolo non comprendendo quanto stress possa provocare l’assistere un malato.

La “buona” notizia è che si parla sempre di più di questa figura, la si riconosce (ci si sta battendo affinchè anche a livello legislativo vi sia una maggior tutela dei caregivers) e gli stessi diretti interessati fanno valere i loro diritti e acquisiscono sempre più la consapevolezza che il loro ruolo è fondamentale, ma anche molto difficile e pesante. Avendone maggiore consapevolezza si è maggiormente in grado di trovare delle soluzioni, supporti, reti di sostegno.

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